Dolori muscolari dopo protesi anca – CAUSE e SOLUZIONI di un problema che in alcuni casi trasforma un intervento chirurgico ben riuscito in un fallimento
Abbiamo deciso di scrivere questo articolo “Dolori muscolari dopo protesi anca” per tre diverse tipologie di pazienti:
- Il paziente che presenta una sintomatologia all’anca, sta pensando di ricorrere ad un intervento chirurgico per risolvere il suo problema e comincia a preoccuparsi di cosa fare per presentarsi al meglio all’intervento, in modo da ottenere il miglior risultato possibile;
- Il paziente che sta per essere operato di protesi d’anca ed è preoccupato di quali potrebbero essere i sintomi post-intervento;
- Il paziente che ha già affrontato l’intervento, presenta dei sintomi dolorosi ed è interessato a capire se quest’ultimi sono normali ed eventualmente quali possono essere le possibili soluzioni.
Lo scopo principale sarà quindi di spiegare in modo approfondito le problematiche collegate ad un intervento di protesi d’anca e descrivere le strategie terapeutiche per affrontarle.
Premesse
Partiamo dicendo che generalmente l’intervento chirurgico di protesi d’anca ha un’ottima riuscita: il paziente torna in breve tempo alla sua vita quotidiana, ottenendo i miglioramenti previsti senza particolari difficoltà.
In alcuni casi però, a seguito della procedura la persona può sperimentare dolore in diverse aree del corpo, non sempre adiacenti all’anca operata: nei prossimi paragrafi cercheremo di capire perché.
Il dolore post intervento
Come tutti gli interventi chirurgici, anche quello per la protesi d’anca, pur essendo un intervento di routine con tempi di ospedalizzazione brevi e tempi di ripresa molto veloci, rappresenta un trauma per il corpo della persona. Questo significa che come ogni altro trauma porterà con sé delle cicatrici e uno stato di infiammazione dell’area interessata, il tutto si tradurrà inevitabilmente in dolore per il paziente.
Generalmente però, questo tipo di dolore si risolve in breve tempo, migliora anche con il semplice riposo e soprattutto si concentra nella sede dell’intervento, senza estendersi in zone quali la schiena o il resto dell’arto inferiore.
Un altro aspetto da non sottovalutare è l’immobilità post intervento, o comunque la riduzione del movimento, il quale provoca un “parziale spegnimento dei muscoli”, ed un loro conseguente indebolimento.
Oltre a tutte queste conseguenze pressoché inevitabili ma anche facilmente risolvibili, talvolta la persona, anche dopo diverse settimane, comincia a sperimentare dolore in diverse aree del corpo. Questa nuova sintomatologia è generalmente provocata delle problematiche dell’apparato muscolo scheletrico presenti PRIMA dell’intervento, le quali impediscono al corpo del paziente di adattarsi agli esiti del recente “trauma chirurgico” della protesi.
Pensiamoci per un attimo: per giungere ad un intervento chirurgico di protesizzazione, il paziente si deve trovare in 2 specifiche situazioni:
- Il paziente è vittima di un trauma che ha comportato la frattura del collo del femore. In questo caso la strategia terapeutica più efficace e sicura è la protesi, e non tratteremo questa specifica casistica in questo articolo.
- La problematica di usura articolare dell’anca è molto avanzata, si è evoluta negativamente nel tempo, e l’articolazione non può più sostenere la persona nei movimenti di vita quotidiana senza provocare forti dolori.
Ponendo sotto la lente d’ingrandimento il secondo caso, l’usura dell’anca può essere provocata da diversi fattori anche improvvisi, ma nella maggior parte dei casi è una situazione che si struttura lentamente, con il passare del tempo. Questo significa che con il passare degli anni, i movimenti della vita quotidiana, sommati ai differenti traumi che ognuno di noi può trovarsi a dover affrontare, portano le componenti articolari dell’anca a consumarsi, nonché i muscoli ad essa adiacenti a sovraccaricarsi ed irrigidirsi. Va sottolineato che il sovraccarico muscolare appena citato, a sua volta può “contagiare” i distretti corporei adiacenti, oppure questi ultimi possono irrigidirsi per compensare l’instabilità dell’anca in questione.
Esempio pratico
Proseguiamo ora con un esempio che va ad identificare un paziente, che nonostante un intervento di protesizzazione dell’anca continua a percepire forti dolori muscolari. Immaginate questo esempio.
Una persona, a seguito di un trauma distorsivo del piede, presenta una caviglia instabile, (ovvero, conseguentemente allo shock muscolare dell’evento traumatico, i muscoli che stabilizzano questa articolazione non riescono più a lavorare in modo sincronizzato, quindi, invece di produrre un movimento fluido e dinamico, generano uno scivolamento a scatti delle superfici articolari, che a sua volta si traduce in micro traumi sia per la cartilagine sia per le strutture molli di contenimento che la proteggono).
Immaginiamo che il soggetto in questione, una volta superato il dolore iniziale del trauma, decida di continuare a svolgere tutte le attività della sua vita quotidiana senza preoccuparsi di curare fino in fondo la problematica (perché tendenzialmente almeno all’inizio, non appare ne particolarmente evidente, ne particolarmente limitante). Si viene a creare a questo punto un aggravamento della situazione: l’instabilità della caviglia si trasferisce in parte anche ai distretti articolari vicini. L’instabilità della caviglia genera micro movimenti che poi il corpo si trova a dover gestire in altre articolazioni come ginocchio, anca, bacino e cosi via.
Con il passare delle settimane e dei mesi, il corpo si adatta alla situazione e mette prontamente in atto delle strategie di contenimento, il che si traduce in un’iper attivazione dei muscoli stabilizzatori delle articolazioni interessate. Questa strategia va a limitare i micro movimenti traumatici che la caviglia subiva durante le normali attività della vita quotidiana, e più intense sono queste attività, maggiore sarà il grado di iper attivazione muscolare necessario per auto-proteggersi. Ovviamente tutto ha un costo e delle conseguenze, ed in questo caso possiamo osservare:
- Iper attivare i muscoli stabilizzatori significa anche inevitabilmente aumentare il grado di compressione delle due superfici articolari, il che comporta un aumento dell’attrito e di conseguenza un’ aumento dell’usura cartilaginea.
- A lungo andare l’aumento del tono muscolare si traduce in una riduzione della mobilità che va a discapito delle altre articolazioni dell’arto inferiore, che dovranno compensare parte del movimento mancante.
- L’aumento del tono per un periodo prolungato porta inoltre ad un adeguamento della struttura fasciale (in questo caso del piede, della caviglia e dell’anca), con conseguente strutturazione della rigidità, (in altre parole a questo punto senza un’intervento esterno, di terapia manuale, non si torna più indietro).
- In ultimo dobbiamo anche considerare che il nostro corpo non ragiona per singoli muscoli, ma bensì per gruppi muscolari. Questo significa che in realtà non parliamo di iper-attivazione di singoli muscoli, ma più verosimilmente di diverse catene muscolari. In poche parole più passa il tempo, e più la rigidità della caviglia si estenderà a tutto l’arto inferiore, con la ripetizione delle conseguenze sopra descritte anche nei distretti articolari adiacenti.
Passano i mesi, e le rigidità risalgono quindi verso l’anca, aumenta la compressione articolare di quest’ultima, e ogni passo diventa traumatico nel momento in cui il tallone impatta con il terreno (immaginate, o ancor meglio provate, a correre appoggiando solo il tallone, capirete all’istante quello che stiamo dicendo).
Ovviamente tutto il meccanismo degenerativo appena descritto non è uguale per tutti, se non altro per gravità. Ogni persona infatti ha un diverso stile di vita, eventualmente una diversa tipologia o gravità di trauma, un corpo e quindi un sistema muscolo scheletrico unico. Di conseguenza anche le conseguente di una distorsione alla caviglia possono essere inevitabilmente accentuate o ridotte rispetto a quanto scritto fin’ora.
Continuiamo con l’esempio descritto, aggiungendo e semplificando un ultimo passaggio, la ciliegina sulla torta. Tendenzialmente il corpo a questo punto, rilevando l’aumento di tensione e quindi di usura articolare dell’arto inferiore traumatizzato, potrebbe cercare una via d’uscita, scaricando parte del peso del corpo sull’arto inferiore “sano”. Ma se per caso nella sua storia clinica (ovvero l’insieme degli eventi traumatici che in passato hanno influenzato la vita e quindi il corpo del paziente), sono presenti dei traumi che hanno provocato un cambio della sua postura, magari portando la persona a scaricare la maggior parte del peso, proprio sull’arto traumatizzato di cui stiamo parlando, avremmo un’ulteriore criticità in aggiunta al recente problema. Data la situazione, l’anca del povero malcapitato, si troverebbe in una condizione di massima compressione, con l’inevitabile degenerazione del tessuto cartilagineo. Il paziente in questa situazione prova forti e diffusi dolori muscolari.
Arrivati qua abbiamo raggiunto il punto focale del discorso: tutte queste problematiche non si risolvono con un intervento di protesi d’anca. Esso è indispensabile sia per sostituire l’articolazione che è talmente tanto usurata da non poter più funzionale correttamente, sia per risolvere il dolore associato alle componenti articolari usurate, ma non potrà comunque in alcun modo risolvere le rigidità e l’instabilità dei tessuti adiacenti che hanno nel tempo provocato l’usura dell’anca e la sintomatologia a questi ultimi associata. Bisogna dire anche che la protesi, fungendo di fatto da nuova articolazione, porterà certamente ad un riassetto posturale e ad un miglioramento della performance dell’arto inferiore. D’altra parte però, le rigidità muscolari e fasciali precedenti all’intervento dovranno comunque essere adeguatamente trattate e risolte, per ottenere un risultato soddisfacente.
La migliore strategia terapeutica
Con il discorso appena concluso speriamo di avervi dato una panoramica complessiva del perché potreste provare del dolore a seguito di un intervento di protesi d’anca.
La migliore soluzione sarà quindi la valutazione e il successivo trattamento di tutto il corpo della persona, indipendentemente dalla motivazione che ha portato all’intervento chirurgico.
Con questo intendiamo sostanzialmente l’individuazione di tutte le aree rigide che impediscono all’articolazione dell’anca di muoversi in maniera corretta e di tutti i muscoli deboli che devono essere rinforzati per migliorare la postura della persona e i suoi movimenti nella vita quotidiana, ed il successivo trattamento con terapia manuale, terapia strumentale e rieducazione motoria. In concomitanza a tutto ciò, sarà indispensabile anche prendersi cura dell’area traumatizzata dall’intervento, ripristinando l’elasticità dei tessuti cicatriziali, eliminando l’infiammazione e rinforzando i muscoli indeboliti.
Questo percorso terapeutico è stato descritto per i pazienti che hanno già subito l’intervento. Ciò non toglie che anche le altre tipologie di pazienti menzionate all’inizio dell’articolo, ovvero chi è già in lista ed è in attesa dell’intervento o chi lo sta valutando come possibile opzione terapeutica, non possano beneficiarne.
In particolare, per le persone con l’intervento già programmato significherà iniziare a prendersi cura del proprio corpo per poter arrivare alla procedura chirurgica nelle migliori condizioni possibili e per diminuire nettamente i tempi di recupero post intervento.
Per tutti gli altri invece, considerare di affrontare la propria problematica prima con una strategia terapeutica meno invasiva permetterà di valutare quale parte dei sintomi può essere gestita senza giungere alla protesi, per riuscire a posticiparla nel tempo o anche ad evitarla del tutto.