Frattura malleolo dopo quanto si cammina – SEMPLICI CONSIGLI per capire la situazione e sapere quali sono i passi per una eccellente riabilitazione
Frattura malleolo dopo quanto si cammina?
Frattura malleolo dopo quanto si cammina? – Questa è la ricerca in Internet più frequentemente associata a questo tipo di trauma. Ciò ci fa capire una cosa importante, ovvero che questo tipo di infortunio va ad inficiare pesantemente sulla vita dei pazienti e il ritorno ad un cammino autonomo e precoce rappresenta per loro la maggiore esigenza riabilitativa. Abbiamo deciso di cominciare questo articolo subito sintetizzandovi le informazioni più importanti: anche se non siete tipi da spoiler, leggetele lo stesso, perché vi daranno un’idea di ciò che tratteremo meglio in seguito, (tranquilli non ve ne pentirete).
Spoiler numero 1: dopo QUANTO si cammina?
Le fratture di malleolo possono essere classificate in 3 categorie a seconda della sede che viene coinvolta. Possiamo distinguere quindi:
- la frattura del perone
- la frattura della tibia
- la frattura di entrambe le ossa, tibia e perone
A seconda della sede e della gravità della frattura del malleolo, mediamente ci vorranno dalle 6 alle 8 settimane per ritornare a camminare. Questo lasso di tempo può variare anche in base al tipo di intervento che viene adottato per stabilizzare la frattura, in quanto l’immobilizzazione con il gesso richiederà dei tempi sicuramente minori rispetto a un intervento chirurgico con placca e viti, quindi prognosi e riabilitazione terranno conto di questi fattori.
Spoiler numero 2: serve un’ALTERNATIVA alla normale fisioterapia
Il percorso riabilitativo che normalmente viene proposto dopo una frattura di malleolo è spesso obsoleto, superficiale e persino controproducente. Tolto il gesso o passato il periodo post chirurgico la palla viene infatti passata al fisioterapista per la riabilitazione. Sentirete dire da molti esperti che la parte più importante nella prima fase di recupero (tanto importante da essere spesso l’unica) è quella relativa alla rieducazione al movimento e agli esercizi. Bene, parafrasando Fantozzi “questa è una sciocchezza pazzesca”. Leggendo i prossimi paragrafi lo capirete voi stessi e sarete d’accordo con noi.
Gli ostacoli che possono allungare i tempi del recupero
Quali sono i motivi per cui alcune caviglie non recuperano bene?
Ora che vi abbiamo rivelato in maniera diretta e brutale il finale, possiamo cominciare dall’inizio.
Quando si incorre in una frattura di malleolo, la rottura dell’osso può presentare due quadri diversi: se i due monconi in cui si divide l’osso rimangono in asse si parlerà di frattura composta, se invece si perde la continuità e la congruenza dei due monconi si parlerà di frattura scomposta. Detto ciò, in presenza di una frattura composta, o che interessa solo il perone o solo la tibia, lo specialista ortopedico predilige la stabilizzazione con gesso. Al contrario quando si è di fronte ad una frattura di malleolo scomposta, o che coinvolge entrambi tibia e perone, si predilige l’intervento chirurgico con placche e viti. Da queste scelte dipendono i tempi di recupero necessari per ritornare a camminare: più precisamente con una immobilizzazione con gesso i tempi minimi di recupero sono 30 giorni, invece con la stabilizzazione chirurgica il carico completo sull’arto sarà di lunga posticipato. Questa differenza è evidente, perché la chirurgia garantisce una guarigione migliore ove necessario, ma inevitabilmente rimane un trattamento più invasivo.
Abbiamo capito quindi quali sono i tempi di recupero da manuale, e grosso modo le motivazioni di queste durate. Ora usciamo dai libri e torniamo alla realtà: ciò che i libri non considerano infatti è che i pazienti in cui avvengono i traumi non sono tutti uguali e soprattutto non è detto che tornare a camminare implichi tornare ad avere una buona qualità di vita. Con questo vogliamo dire che due pazienti, con la stessa frattura e la stessa stabilizzazione, dopo le 6 settimane canoniche, possono trovarsi entrambi a camminare, ma uno potrebbe farlo senza dolore, l’altro potrebbe percepire un dolore tale da impedirgli di tornare serenamente alle sue attività quotidiane.
Cosa ha segnato il destino dei nostri due pazienti apparentemente simili per frattura?
La presenza di un buon numero di fattori che mediamente non vengono presi in considerazione: cerchiamo di capire ora quali possono essere gli ostacoli importanti che portano il paziente ad avere una prognosi più lunga e critica.
Ostacolo numero 1: le lesioni secondarie
Quando si incorre in una frattura di malleolo, dovete sapere che in parallelo si verifica una importante distorsione della caviglia con la conseguente lesione dei legamenti e della cartilagine articolare.
Ciò che sorprende è che spesso dopo il trauma si presta attenzione quasi solo alla lesione ossea, dimenticando che l’osso è posizionato in profondità rispetto ad altri tessuti molli come il sistema muscolare, circolatorio e nervoso. Tutte queste strutture vengono lesionate, sia vicino all’area traumatizzata sia molto spesso in aree lontane.
Per rendervi più chiaro il meccanismo del trauma, provate ad immaginare che tutti i nervi del nostro corpo siano dei filamenti uniti in un unico vestito: tale vestito è ampio e inizia rivestendo il cervello e arriva a ricoprire l’ultimo terminale nervoso della periferia (i cosiddetti recettori: quando vi pungete un dito, il recettore è quel terminale nervoso che vi dà la sensazione spiacevole di puntura). Immaginate allo stesso modo anche il sistema arterioso e venoso come un’unica grande rete senza interruzioni.
Compreso ciò, se teniamo presente che prima della frattura del malleolo si verifica spesso una distorsione della caviglia, possiamo facilmente intuire come questi due importanti componenti (il sistema nervoso e circolatorio) subiscano un brusco stiramento per effetto del trauma (lo stesso stiramento avviene anche a carico dei muscoli del piede, ma in ordine di priorità risulta più importante il coinvolgimento di tessuti nobili vascolari e nervosi rispetto a quelli muscolari). Durante la distorsione, lo strattone che si avverte al piede può arrivare a coinvolgere la stessa dura madre che riveste il midollo spinale, o la fascia che ricopre l’arteria femorale e gli snodi dell’arteria aorta , proprio perché il tessuto che riveste il sistema nervoso e circolatorio è unico in tutto il corpo. Per portarvi una prova a favore di quanto appena detto, sappiate che molti pazienti ci raccontano che nel momento del trauma alla caviglia si sente una fitta acuta e pungente che dal piede percorre tutta la gamba e arriva alla schiena, ai denti o persino alla testa e che toglie il respiro, a significare che c’è un coinvolgimento a distanza di altre strutture al di fuori del piede.
Questo non vuol dire che si creano delle lesioni vere e proprie ai neuroni e alle arterie, ma al vestito che le riveste: su ognuna di questa lesione il corpo attiverà una cicatrizzazione dei tessuti, ma questa cicatrice se non trattata diventerà rigida e limiterà inevitabilmente i movimenti in modo più o meno importante. Dovete capire infatti che l’area cicatriziale è un’area debole che il corpo tende a proteggere, per farlo attua sempre lo stesso schema: si chiude a riccio su quel punto alterando la postura. Provate a immaginare una persona con il mal di pancia: questa sarà tutta chiusa in avanti con la schiena piegata a proteggere l’area dolente, ecco la stessa cosa accade in tutto il corpo in presenza di lesioni e cicatrici.
Potete ben capire che se come conseguenza di queste lesioni secondarie, il corpo altera la propria postura scaricando il peso più sulla caviglia traumatizzata, l’infiammazione durerà di più e andrà a allungare i tempi di recupero, inficiando pesantemente il risultato della riabilitazione.
Ostacolo numero 2: la situazione antecedente al trauma
Ora proviamo a capire come, gli infortuni e le problematiche del sistema muscolo scheletrico, che sono già presenti sul corpo del paziente prima del trauma, possono creare ostacoli al recupero. Nel paragrafo sopra, vi abbiamo spiegato come le lesioni secondarie al trauma, alterano la postura peggiorando il recupero. A questo punto, per ottenere una strategia riabilitativa efficace, bisogna anche fare i conti con le problematiche antecedenti al trauma, cioè quelle che rendono ogni paziente diverso dall’altro, con differenti criticità e punti di forza. Si perché ogni persona nella sua vita ha collezionato traumi, infiammazioni e interventi chirurgici che hanno alterato le capacità di movimento e di allenamento di quel soggetto, portando alcune articolazioni ad essere più rigide di altre. Al di là della sede e del tipo di stabilizzazione della frattura di malleolo, questi fattori alterando l’equilibrio e la postura del paziente, incidono pesantemente sul successo delle terapie.
Serve un’alternativa agli esercizi
Ora diventa più semplice spiegarvi perché cominciare la riabilitazione contando solo sulla parte motoria degli esercizi è una pessima idea. Ecco 2 grandi motivi:
- Troppe cicatrici – vanno eliminate tutte le rigidità quindi le densità cicatriziali direttamente collegate al trauma, o a aree traumatiche secondarie, in modo tale che il corpo sia libero e pronto al riallenamento dei muscoli deboli senza rischiare sovraccarichi controproducenti .
- Edema e gonfiore – bisogna ottenere una situazione in cui ci sia un corretto afflusso e deflusso di sangue nell’area traumatizzata, in modo che il gonfiore, l’ematoma e l’infiammazione facciano il decorso più rapido possibile, lasciando maggior libertà di circolazione all’ossigeno e alle sostanze nutrienti.
Solo a questo punto, con la caviglia sgonfia, e con un corpo libero di potersi muovere senza rigidità, possiamo permetterci di rieducare il movimento. La rieducazione motoria senza ombra di dubbio è una fase della riabilitazione fondamentale: trauma e dolore, per loro natura, anestetizzano e impigriscono i muscoli che hanno quindi bisogno di essere rinforzati e rieducati al movimento e al mantenimento della corretta postura. Ma è importante che questa parte del percorso si faccia solo dopo aver raggiunto gli obiettivi sopra descritti, altrimenti, se troppo precoce, la riabilitazione motoria attiva su un corpo traumatizzato può trasformarsi facilmente in sovraccarico con conseguente aumento dell’infiammazione e posture scorrette di protezione.
Anche perché provate a rispondere a questa domanda: secondo voi, dopo un’importante trauma, è meglio cominciare la riabilitazione con 1 ora di esercizi al giorno che vi lasciano stanchi e dolenti per le seguenti 23 ore, obbligandovi cosi a star fermi seduti o a letto….oppure preferireste ridurre in modo graduale i dolori giorno dopo giorno per essere sempre più attivi e indipendenti nella vita quotidiana? NOI preferiamo la seconda opzione, perché fare poco per 23 ore ma in crescita giorno per giorno è mille volte meglio che fare tanto per un’ora e nulla per 23.